12 ottobre 2025
Aggiornato 14:30
L’attentato al tribunale di Reggio Calabria ci riporta ai tempi delle stragi di mafia

L’Italia che non vorremmo

La ‘ndrangheta alza il tiro confidando nella debolezza dello Stato

L’Italia che non vorremmo è quella dove una organizzazione criminale arriva a piazzare una bomba davanti ad un tribunale per intimidire la giustizia.
Quanto è successo a Reggio Calabria suscita inquietudine perché dietro questo atto terroristico c’è la misura di un rapporto fra Stato e illegalità che presuppone la deviazione di alcune linee di demarcazione, prima fra tutte quella che l’autorità giudiziaria possa essere immune da minacce perché ben protetta dalle leggi e da chi le deve fare rispettare e cioè istituzioni e forze di polizia.

La bomba della ‘ndrangheta ci manda a dire che quella trincea a difesa della legalità non è più affidabile come dovrebbe, al punto che i criminali ritengono possa essere attaccata e quindi anche espugnata.
Se non fosse così quella bomba non avrebbe senso. Ovvero lo avrebbe solo se fosse stato il frutto di una azione isolata e vendicativa. Ma sappiamo che così non è stato
Secondo le prime ricostruzioni la bomba dovrebbe servire ad ammorbidire la giustizia alla luce dell’approssimarsi di sentenze che potrebbero essere molto pesanti e definitive.
E’ come se i criminali avessero deciso di mettere la giustizia con le spalle al muro. E’ come se stessero chiedendo una resa incondizionata, per di più, dopo la plateale provocazione, da esporre alla luce del sole e sotto gli occhi del mondo.
La logica dice, però, che se questa fosse la causa e quello l’effetto la ‘ndrangheta avrebbe fatto un marchiano errore di valutazione perché di fronte ad una sfida così sfacciata anche lo Stato più debole non potrebbe che alzare il suo livello di guardia e quindi giammai soggiacere al ricatto, previo una perdita di credibilità irreparabile.
Ma può una organizzazione così potente avere fatto un calcolo a tal punto sbagliato?
Evidentemente le cose sono più complesse di come appaiono.

La conferma di questa complessità viene anche da quanto asseriscono gli stessi magistrati coinvolti: «La decisione-dicono- deve essere stata presa, con l’accordo di tutte le cosche». Quindi non è stato un gesto isolato e sconsiderato, bensì a lungo ponderato, misurato sul bilancino della convenienza o degli svantaggi che avrebbe comportato.
Ora appare chiaro che i criminali, per decidersi a metterlo in atto, si debbono aspettare ben altro di un ammorbidimento reso, viceversa, ancora più difficile perché apparirebbe come un plateale arrendersi dello Stato alle loro intimidazioni.
Lo scambio che la ‘ndrangheta chiede deve allora essere necessariamente sotterraneo. Deve consentire allo Stato di alzare la voce dal punto di vista mediatico per coprire, con un livello più alto di attenzione, il punto debole attraverso il quale far passare il pagamento del riscatto.
E’ questo quello che chiede la ‘ndrangheta. Quale siano l’entità e le modalità di questi favori sottobanco che i criminali pretendono sono del tutto sconosciuti, perlomeno a chi è lontano dalle vicende calabresi. Inoltre il fatto che lo pretendano non è detto che lo attengano.
Ci fa comunque paura avere la consapevolezza che una organizzazione criminale conosca a tal punto le maglie deboli dello Stato da azzardarsi ad avanzare pubblicamente una richiesta scellerata nella convinzione che le probabilità che venga accettata siano comunque superiori, secondo i loro calcoli, all’eventualità di essere respinta.