19 aprile 2024
Aggiornato 06:30
Esteri. Stati Uniti

Dalla cella di Guantanamo al Desk di al Jazeera

Il giornalista sudanese, Sami al Hajj si racconta al New York Times

NEW YORK - Il giornalista Sami al Hajj, stava lavorando per la tv satellitare araba al Jazeera come operatore, quando verso la fine del 2001 venne fermato dalle forze di sicurezza pachistane. Poi, tra le altre cose, gli Stati Uniti, lo avevano accusato di falsificazione di documenti, finanziamento di danaro ai ribelli ceceni. Così, dopo oltre un anno dal suo rilascio dal carcere di Guantanamo, oggi, il quotidiano The New York Times presenta il giornalista sudanese quarantenne.

Tornato a lavorare per la sua emittente satellitare araba, il giornalista, conduce ora un programma dedicato ai diritti umani e libertà civili. «Vorrei parlare per sette anni, per compensare sette anni di silenzio», ha esordito durante l'intervista concessa al Nyt dalla sua scrivania nella sede di al Jazeera a Doha.

Per il giornale statunitense, dall'11 settembre 2001, «nulla di più» dell'idea della prigione di Guatanamo, ha danneggiato l'immagine dell'America nel mondo arabo. Ragion per cui, il più diffuso canale news di quel mondo arabo, al Jazeera appunto, «è conscio di avere in mano una potente arma» per il suo network. Non a caso, in una recente intervista, Ahmed Sheikh, il direttore generale di al Jazeera, ha definito al hajj «uno delle vittime delle atrocità commesse contro i diritti umani dall'ex amministrazione americana».