«Quinto, non uccidere» in libreria
Sabato presentazione del nuovo libro di Paolo La Bua: indagine su casi di uomini che hanno ucciso in circostanze drammatiche: rapine, furti, posti di blocco
Paolo La Bua presenta sabato 28 febbraio il suo nuovo libro, intitolato «Quinto: non uccidere» alla Feltrinelli di Biella (ore 18). Il testo indaga su storie di uomini che hanno ucciso nel corso di vicende controverse: rapine, tentativi di furti o posti di blocco da parte delle forze dell'ordine. Storie recuperate dalla cronaca e ampliate dall'autore attraverso le parole dei protagonisti. Di seguito pubblichiamo in anteprima la prefazione del giornalista de «La Stampa», Michele Brambilla.
La cronaca nera non è più tanto di moda. O meglio. Sono di moda alcuni grandi «gialli» – Cogne, Avetrana, via Poma, Garlasco – che riempiono puntate intere di talk show televisivi trasformati in processi con contorno di pubblico diviso tra colpevolisti e innocentisti, e con una serie di «esperti» (quasi sempre le stesse facce) che illuminano con i loro pareri. Sono psicologi, criminologi, sociologi e via di seguito, insomma persone che saranno anche molto preparate nella loro professione ma che hanno un non piccolo limite: quello di non essere mai stati sul posto del delitto, di non aver mai parlato con i protagonisti del caso, insomma di non avere mai fatto i cronisti. Forse anche per questo il gran parlare su quei «grandi gialli» di fatto non è cronaca nera ma spettacolo. E spesso deprimente.
La cronaca nera diciamo così, «spicciola», è stata cancellata dai grandi giornali ma resiste, e mantiene tutta la sua forza, in quelli di provincia. Sono giornali che vivono per il legame con il proprio territorio, e quindi con la realtà.
Paolo La Bua lavora in un giornale di provincia e quindi appartiene a quella categoria di giornalisti che ancora fanno davvero i cronisti; che ancora passano più tempo fuori che in redazione, alla ricerca di storie.
In questo libro ne ha raccolte dieci. Sono tutte storie legate da un filo conduttore: il protagonista è un uomo che ha ucciso. Ha ucciso per difendersi da una minaccia, magari più avvertita che reale: ma comunque una minaccia. Quando qualcuno ti entra in casa, non sai mai che cosa può succedere. Altri protagonisti di questo libro sono uomini delle forze dell’ordine, oppure soldati: anche loro hanno ucciso nella certezza che non vi fosse un’alternativa. Nella certezza insomma che in quel momento bisognava difendersi.
Il punto di partenza di tutto è proprio «quel momento». Quell’attimo in cui si è chiamati a prendere una decisione rapida, istantanea. Non c’è tempo per valutare tutto, per capire con certezza se è giusto sparare oppure no. E’ l’attimo che cambia tutta la vita. Anzi, che cambia due vite: quella di chi spara e quella di chi è colpito.
Il secondo non avrà più tempo davanti. Il primo resterà con qualcosa «dentro» che gli farà dire che nulla sarà mai come prima. Chi ha ucciso per difendersi cercherà sempre di placare il tormento dicendo a sé stesso che non poteva fare altrimenti. Ma il dubbio resta sempre. Anche in coloro (e sono tanti, tra gli intervistati in questo libro) che sostengono di avere la coscienza a posto.
Il lettore avrà già capito: questo libro di Paolo La Bua non è solo un libro di cronaca nera, ma la dimostrazione che la cronaca nera, se fatta con sensibilità, ha molto da dirci sull’umano. Queste storie vanno ben oltre gli aspetti legali. Scavano nel profondo, nei cuori. Arrivano vicinissime alla percezione – improvvisamente raggiunta dai protagonisti – di quanto sia sottile il confine tra la vita e la morte; e di quanto assoluto sia il bene della prima.
E’ il libro di un cronista che non chiude gli occhi di fronte alla pietà. Ne sono prova le parti in cui si racconta la solitudine di coloro che nella prima parte del racconto si presentano come gli aggressori: ladri, rapinatori, insomma malviventi, ma comunque esseri umani, che diventano vittime anch’essi quando cadono uccisi, e ancor di più quando si congedano da questo mondo senza nessuno ad accompagnarli al camposanto.
La pietà, per i vivi e per i morti, è un valore spesso dimenticato nella cronaca. Non in queste pagine, dove ogni uomo alla fine appare per quello che è: un uomo appunto, e gli uomini sono tutti uguali. Non sempre (quasi mai) ci è concesso di giudicare chi sono i buoni e chi sono i cattivi: anche perché nella vita quasi mai è tutto bianco o tutto nero, la realtà è piuttosto un insieme di gradazioni di grigio. «Devo ammettere che sparare è eccitante – dice un soldato intervistato da Paolo La Bua – Dà un senso di potere». Il potere di decidere sulla vita di un altro. Un potere che non dovremmo assumerci mai.
E come non è lecito per noi condannare chi, in queste storie, stava dalla parte dei rapinatori, ancor meno ci è concesso di condannare chi per difendersi ha ucciso. A volte forse la loro difesa è stata eccessiva: ma lo diciamo con il senno di poi. Come scrivevamo prima tutto si è deciso in un attimo, e in quell’attimo chi ha sparato era solo con se stesso.
Ripeto: molti di coloro che hanno ucciso, e che La Bua ha intervistato, dicono di non provare rimorso. Non so se sia del tutto vero. Sicuramente, se potessero cancellare quell’episodio che ha cambiato la loro vita, lo farebbero subito. In «Delitto e castigo» l’ex prostituta Sonia dice a Raskolnikov che le ha appena confessato di avere ucciso una vecchietta: «Che pena devi avere nel cuore».