25 aprile 2024
Aggiornato 11:30
Grande perdita

Salite, silenzio e lavoro duro. Michele Scarponi, il simbolo dell'Italia migliore

Senza di lui i grandi campioni non avrebbero vinto nulla. Una vita trascorsa in salita, al servizio del mitico, e sempre più aleatorio, concetto di squadra

ANCONA  - Michele Scarponi non era un gregario. Michele Scarponi non era nemmeno un ciclista che ha vinto il Giro d’Italia. Michele Scarponi era un eroe. Un uomo che rappresentava, e rappresenta nonostante oggi non sia più qui con noi, la parte migliore dell’Italia. Quella che si ammazza di fatica nel silenzio, che lavora duramente al buio, manco nell’ombra: la spina dorsale della società intera. Uno degli ultimi rappresentanti di un mondo antico, fatto di valori e lavoro, dove le salite della vita sono affrontate a viso aperto e con ferrea, indomabile, determinazione. Michele Scarponi era l’Italia che si alza presto e va a lavorare, con il culto del senso del dovere: un valore disperso nella miseria dell’apparire e della competizione ad ogni costo.

Chi può capire cosa sia l'insuperabile fatica del ciclismo
Nessuno può capire cosa sia l'insuperabile fatica del ciclismo, se non ha mai provato il silente sgomento che ti prende durante una salita come il Mortirolo, o il colle delle Finestre. Lui aveva fatto di questa fatica disumana la sua forza, che metteva a disposizione degli altri, dei campioni, di quelli che poi salivano sul podio e si facevano baciare dalle modelle vestite di giallo o di rosa, mentre alzavano coppe e trofei. Un uomo che viveva senza invidia, con un concetto di «competizione» alto, nobile, finalmente non tribale e bislacco, in cui ognuno dava il massimo non per primeggiare egli stesso, ma per far vincere la squadra.

Eroe altruista
Non saprei veramente dire se le non vittorie di Scarponi - arrivava spesso distaccato, dopo che si era spompato a fondo per trascinare i campioni alla vittoria – abbiano esaltato i tifosi meno dei grandi trionfi dei nomi noti. Anzi, proprio questo suo eroismo altruista, lo rendeva infinitamente più amato delle superstar globali che vincono in successione le grandi corse: robot senza nulla, senza cuore e senza anima, probabilmente pure senza cervello vedendo le loro improbabili prestazioni una tantum. Microbi di fronte al silenzioso gigante.

Un invisibile invincibile
Il ciclismo è uno sport terribile, perché mischia la sconvolgente condizione della stremante solitudine al concetto, assai aleatorio, di squadra. Lui la squadra la faceva, e la faceva vincere. «Si gioca a pallone, a basket, a pallavolo: ma non si gioca a ciclismo. Il ciclismo non è un gioco», ha detto recentemente un grande campione che non voglio nominare, perché queste righe sono riservate e dedicate solo al grande Michele Scarponi. Se ne va un invisibile invincibile, travolto da un camion mentre alle otto del mattino si allenava: da solo, a trentasette anni, un’età dove si potrebbe stare tranquillamente a casa a godersi contratti e fama. Michele Scarponi non deve essere dimenticato, deve essere portato ad esempio: perché Michele Scarponi era il simbolo di un’Italia assediata che resiste, stremata come su una salita che taglia le gambe e fa cadere dalla fronte grosse gocce di sudore salato.