L’Italia non è un paese per giovani
E intanto spendiamo quasi due miliardi l’anno in formazione, ma con scarsi risultati
Due milioni di disoccupati fanno paura. E dal 1994 il lavoro in Italia non toccava questa quota da massima allerta.
Il problema certo non si risolve con i confronti consolatori del ministro Sacconi, che ci rassicura facendoci notare che siamo al di sotto della media europea.
Ma è altrettanto difficile ottenere risultati invocando ricette salvifiche da Prima Repubblica.
Quelle, per intenderci, della difesa ad ogni costo di situazioni che non stanno in piedi, dei Lazzaretti delle imprese. A partire dalla soluzione per Termini Imerese, la cui sopravvivenza non può certo essere assicurata dai fondi che la Regione Sicilia si impegna a garantire. Piuttosto bisogna chiedere alla Fiat, e alle capacità manageriali innegabili del suo amministratore delegato, in cambio di quanto le casse pubbliche hanno investito nella fabbrica che ora si vuole smantellare, di trovare una soluzione alternativa a quella di continuare a costruire auto. La riconversione non è una pratica nuova per la Fiat, e quanto ha fatto il Piemonte, che in un tempo relativamente breve si è ripreso dal ridimensionamento della sua attività storica, è un esempio da seguire.
Scomponendo i dati dell’Istat sulla disoccupazione si può scorgere qualche elemento meno fosco se si confronta di posti della prima fase della crisi con quella attuale: a giugno la caduta era stata di oltre 350 mila unità anno su anno, ad ottobre la flessione si è fermata a 248 mila.
Il dato sembra dunque confermare che abbiamo già toccato il fondo del barile e quindi è lecito aspettarsi presto giorni migliori.
Dove invece il pessimismo è massimo è nei risultati che riguardano i giovani: qui il tasso di disoccupazione nello stesso periodo considerato dall’Istat è aumentato di 4,5 percentuali ed ha accentuato un fenomeno che già ci relegava come fanalino di coda dell’Europa.
Oggi la disoccupazione giovanile in Italia sfiora il 27 per cento, il che vuol dire che oltre un giovane su quattro è disoccupato.
Le ragioni congiunturali di questa penalizzazione dei giovani risiedono anche nella crisi attuale. Con gli sforzi del governo concentrati soprattutto a garantire il mantenimento del posto a chi un lavoro lo ha già. Ma si può andare avanti così, gettando sulle spalle delle nuove generazioni tutti i vizi e gli errori dei loro padri, a partire da quella palla al piede sul loro futuro costituita da un debito pubblico rinviato ai posteri?
Evidentemente si può continuare, se si riflette su quanto sta avvenendo nel mondo della ricerca e dell’innovazione. Sono queste due voci le tags di riferimento di ogni intervento politico volto ad indicare la via di uscita dalla crisi. A parole. Nei fatti a che punto stiano con la ricerca e le opportunità offerte ai giovani italiani più volenterosi ce lo ha detto Pierluigi Celli, che non è solo il direttore dell’Università della Confindustria, ma un manager di comprovata capacità. «Figlio mio - ha scritto Celli- in un lettera aperta pubblicata dal Corriere della Sera- hai una unica possibilità, lasciare il tuo Paese e andare a cercare il tuo futuro altrove». D’altronde è quanto hanno già fatto migliaia e migliaia di giovani laureati italiani.
Basterebbe inoltre chiedere agli studenti meridionali di una università come la Bocconi quanta voglia abbiano di esercitare il loro sapere nei luoghi di origine, per rendersi conto della situazione in cui viviamo. Questo per quanto riguarda la ricerca.
Se poi passiamo all’innovazione ieri in Finanziaria è stato bocciato un emendamento per il rafforzamento della rete in fibra ottica e meno male che i deputati si sono messi una mano sulla coscienza per appoggiare, con azione bipartisan, gli ottocento milioni indispensabili per la diffusione della banda larga veloce. Ma comunque non sarà un’impresa facile.
Spendiamo due miliardi l’anno in formazione, la metà di quanti ne ritiene necessari l’Europa per adeguare il mondo del lavoro alle necessità di tecnologie in continua evoluzione, ma li spendiamo anche male visto che lo stesso ministro Sacconi ha più volte ripetuto che «tutta la formazione va completamente ripensata».
Intanto però, Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera ci informa che solo per i collaudi per il Mose di Venezia sono stati spesi 24 milioni e che la Corte dei Conti ha scoperto un bel pacchetto di tariffe maggiorate per almeno sedici professionisti impegnati nell’operazione.
Insomma da una parte non si trovano i soldi per aiutare i giovani e dall’altra si continua a spendere e spandere alla vecchia maniera.
Fra le prospettive offerte a chi oggi sta cercando un lavoro ci sono circa 5,500 posti che si rendono disponibili nella distribuzione, ma anche in altri settori, con le feste natalizie. Si tratta di occupazioni che difficilmente impiegano per più di due mesi, ma le statistiche dicono che una percentuale non trascurabile di queste assunzioni temporanee può trasformarsi anche in lavoro a tempo pieno. Non è molto, ma è già qualcosa.
Intanto si sono presentati in 300 alla Scuola italiana di Santa Claus che da poco ha aperto a Noventa di Pieve, nel veneziano.
La provvidenza, si sa, può fare molto di più della banda larga. A patto, però, che non si confidi solo sulle sue renne.