20 aprile 2024
Aggiornato 15:00
Cinema

Perché «Tutti i soldi del mondo» di Ridley Scott è un filmone (anche senza Kevin Spacey)

Se ne è parlato soprattutto per la cancellazione dell'attore dopo lo scandalo molestie. Ma il film di Ridley Scott sul sequestro Getty è molto di più di questo

Un fotogramma del primo trailer di «Tutti i soldi del mondo», con Kevin Spacey nei panni di John Paul Getty
Un fotogramma del primo trailer di «Tutti i soldi del mondo», con Kevin Spacey nei panni di John Paul Getty Foto: Sony Pictures

ROMA – Il film Tutti i soldi del mondo (nei cinema italiani dal 4 dicembre, e che chi scrive ha potuto visionare in anteprima per la stampa) ruota tutto intorno ad una vicenda di ostaggi. Fu certamente un ostaggio John Paul Getty III (interpretato dal sorprendente giovane Charlie Plummer), rapito dalla 'ndrangheta a Roma e per questo protagonista di una delle storie di cronaca più famose dell'Italia degli anni '70. Così come fu ostaggio, ma del proprio stesso denaro, l'omonimo nonno John Paul Getty, il primo petroliere a mettere le mani sull'oro nero dell'Arabia Saudita e così divenuto l'uomo più ricco non solo della sua epoca, ma dell'intera storia dell'umanità. Tanto ricco da arrivare a vendere per soldi la sua stessa libertà; tanto ricco da non essere disposto a spendere una manciata di milioni del suo patrimonio personale, che superava il miliardo, pur di riavere vivo quello che all'apparenza era il suo nipote prediletto, ma che alla fine non considerava altro che una qualsiasi delle sue tante proprietà, sottratta senza il suo permesso. «Mi piacciono le cose belle, perché non cambiano e non deludono mai», amava recitare il magnate, quasi come un mantra. Salvo poi accorgersi, in punto di morte, che aggirandosi nei corridoi vuoti e bui del suo enorme castello non poté trovare nessun conforto da quei quadri antichi e da quelle opere d'arte che aveva accumulato compulsivamente lungo tutta una vita.

Rimpiazzato fuori tempo massimo
Ma, per uno di quegli impagabili scherzi del destino che non sarebbe in grado di scrivere nemmeno il miglior sceneggiatore di Hollywood, anche la genesi di questa stessa opera ha incrociato imprevedibilmente la traiettoria di nuovi ostaggi: Kevin Spacey, ostaggio del suo incontrollabile istinto sessuale, e i produttori di Sony Pictures, ostaggio del politicamente corretto. È avvenuto quando, sull'onda del caso Weinstein, anche l'attore è stato travolto da accuse di molestie da parte di molti uomini, alcuni dei quali minorenni. Per tutta risposta il mondo dello spettacolo americano, anziché affrontare il cuore del problema, ovvero il rapporto malato e predatorio dei maschi con gli oggetti della loro bramosia erotica, si è limitato a gettare l'intera croce addosso ad un solo capro espiatorio. Facendo così sparire ogni traccia di Spacey (che avrebbe dovuto interpretare Getty senior) da un film che non solo era già stato girato e montato, ma del quale erano addirittura stati pubblicati i primi trailer. «Ci sono 800 professionisti coinvolti, tra attori, scrittori, artisti e membri della troupe che hanno lavorato instancabilmente e in modo eticamente corretto – ha risposto la casa di produzione – Sarebbe stata una gigantesca ingiustizia punirli tutti per gli errori commessi da un unico attore non protagonista». Ci auguriamo che, perseguendo lo stesso cortocircuito tra arte e vita privata, questi stessi signori non finiscano per bruciare anche ogni quadro di Picasso, ogni libro di Pasolini, ogni pellicola di Polanski.

Da non perdere, nonostante tutto
Fatto sta che ci è voluto tutto il genio operativo del regista Ridley Scott e tutta l'esperienza attoriale di Christopher Plummer per rigirare da zero tutte le scene sbianchettate, e in appena nove giorni. «Non eravamo neanche sicuri che fosse possibile sul piano logistico – ammette colui che firmò, tra gli altri, Il Gladiatore e Blade Runnerdato che dovevamo rimettere in piedi tutto, dalle location agli attori che sarebbero dovuti tornare sul set. Ma tutto dipendeva da questa performance fondamentale e avevamo la certezza assoluta che Chris potesse farcela. Se lui fosse stato occupato altrove, probabilmente non ci saremmo riusciti». Il risultato è comunque di qualità, sia sul fronte della sceneggiatura (l'intreccio cede un po' troppo all'azione nella sua parte centrale, ma restano di una profondità toccante i dialoghi e l'introspezione psicologica dei personaggi) che su quello della fotografia (riesce a restituire la magnificenza delle location romane che manco La grande bellezza). Non manca qualche inevitabile esagerazione o imprecisione hollywoodiana nella ricostruzione storica, ma dal lato artistico basta, per dirne una, la recitazione di una Michelle Williams (che interpreta la mamma del rapito, Abigail Getty) in stato di grazia per ripagare l'intero prezzo del biglietto. Se ci scappasse un Oscar, dopotutto, non ci stupiremmo affatto. E non sarebbe solo per merito dell'involontario tam tam mediatico.