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Opinioni

Michelangelo Severgnini: «Il mio film che le Ong vogliono censurare, perché svela la verità sui migranti»

Il regista Michelangelo Severgnini racconta la censura subita dal suo film «L’urlo» da parte delle Ong: «Insultato e accusato, una scena raccapricciante»

Fabrizio Corgnati

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Migranti sbarcati in Sicilia dopo essere stati soccorsi a bordo di un peschereccio al largo della Libia (© ANSA)
Sicilia dopo essere stati soccorsi a bordo di un peschereccio al largo della Libia (© ANSA)

«Questo film proiettatelo nella sede di Casapound». E ancora: «Regista dei miei co…oni». Con una salva di insulti di questo tenore, venerdì scorso, un gruppo di attivisti delle Ong hanno interrotto dopo solo venti minuti la proiezione del film «L’urlo», nel cartellone del festival napoletano ironicamente intitolato al cinema dei diritti umani. Perché questa pellicola ha suscitato una reazione così violenta? Perché racconta, tra l’altro attraverso le parole degli stessi migranti intervistati in Libia, una storia sull’immigrazione molto diversa da quella che normalmente viene portata avanti dalle organizzazioni non governative, nonché dalla stampa al seguito. A raccontarlo ai microfoni del DiariodelWeb.it è lo stesso regista Michelangelo Severgnini, autore anche del libro di recente uscita «Senza speranza senza paura».

Michelangelo Severgnini, come ha vissuto la serata di Napoli?
Da autore, francamente, la mia è stata una reazione tranquilla e serena. Il fatto mi è completamente scivolato addosso. Anzi, semmai mi dispiaceva per gli stessi rappresentanti delle Ong, che si sono visti arrivare un treno in faccia.

Perché?
Perché io ho la consapevolezza di essere in contatto con fonti primarie e dirette in Libia, mentre le Ong e il mondo dell’informazione no. Da quattro anni raccolgo e pubblico messaggi vocali, video, fotografie ricevuti attraverso i social dai migranti. Li ha pubblicati Der Spiegel, persino Saviano sul Corriere della Sera. Dal punto di vista giornalistico nessuno ha mai potuto mettere in discussione il mio materiale.

Le Ong ci hanno provato, invece.
Loro sostengono che le cose le sanno meglio perché sono in mare. Ma se tu parli con una persona che sta affogando, con l’acqua alla gola, è ovvio che questa possa chiedere solo di essere salvata. Ma se ci parli direttamente quando ancora sono in Libia, ti raccontano tutta un’altra storia. Lì è scattato il cortocircuito, di fronte a una sala gremita di sostenitori delle Ong. Peraltro in questo periodo erano già avvenuti altri episodi, anche se mai di questa gravità.

A cosa si riferisce?
Mi era già capitato di non essere invitato, di essere emarginato, di essere censurato o tenuto fuori dalla mischia. Proprio perché i contenuti di questa ricerca non solo mettono in crisi le narrazioni delle Ong, ma provengono dagli stessi migranti.

E come cittadino, invece, qual è stata la sua reazione?
Da cittadino devo dire che ho assistito a una scena raccapricciante, da brividi, sono rimasto deluso ed esterrefatto. Pensare che si possa interrompere un’opera, all’interno di un festival del cinema dei diritti umani, dopo venti minuti, mi sembra mostruoso, impressionante. Peraltro gli organizzatori non sono stati in grado non solo di ripristinare la proiezione, ma nemmeno di mettermi in mano un microfono per poter replicare alla mezz’ora di insulti e accuse gratuite.

Sul tema dell’immigrazione, così come sulla pandemia o sulla guerra in Ucraina, l’atteggiamento nei confronti delle voci dissenzienti è sempre lo stesso: non si cerca il confronto dialettico, bensì le si vuole zittire o criminalizzare. E quel che è peggio è che a farlo sono i sedicenti democratici.
Sì, ma a dire la verità a me questo era chiaro già da diverso tempo. Il film è stato scritto e girato prima della pandemia, nel 2019, mentre il libro è uscito solo due mesi fa. E infatti «L’urlo» a cui fa riferimento il titolo non è quello di sofferenza dei migranti in Libia, ma quello dell’autore.

In che senso?
Nel senso che mi sono reso conto che la realtà sul campo in Libia è completamente capovolta rispetto a quanto è stato raccontato in Europa e in Italia negli ultimi dieci anni. Allora, se è possibile depistare completamente un intero continente su un fatto così grave, a quel punto ci possiamo permettere di tutto. Il controllo del consenso è peggiore rispetto a un regime totalitario. Questa è la mia conclusione.

Ma qual è questo contenuto che dà così fastidio?
Che la maggioranza dei migranti in Libia non chiede di arrivare in Europa, in Italia, ma di essere riportata a casa. Sembrerebbe inspiegabile, secondo la consueta narrazione, ma bisogna scendere in profondità nelle storie di questi ragazzi per capirlo.

Proviamoci.
La maggior parte di loro arriva in Libia dietro raggiro, attraverso un sofisticato sistema di tratta di esseri umani. Raccontano loro che raggiungeranno l’Europa in tre mesi, invece dopo quattro anni si ritrovano ancora bloccati in stato di schiavitù. Solo uno su diciotto sbarca effettivamente in Italia, gli altri diciassette non ci approderanno mai.

E perché non riescono a tornare nel loro Paese?
Sulle loro gambe non possono farlo perché di mezzo c’è il deserto del Sahara. E le mafie non forniscono il servizio a ritroso. L’unica è che qualcuno li carichi su un aereo, come ad esempio l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che ha rimpatriato 60 mila migranti negli ultimi cinque anni, con voli volontari e gratuiti. Ma le stesse autorità di Tripoli non li autorizzano troppo volentieri, perché hanno bisogno di mantenere una costante forza lavoro gratuita di neri africani.

Aspetti, sta dicendo che non è vero che le milizie di Tripoli fermano i migranti, come ci viene raccontato?
Non è affatto così. Al contrario, li sfruttano. Per questo dico che le milizie non hanno fermato la migrazione, l’hanno aumentata. Il loro vero scopo è portare questi ragazzini in Libia per farli diventare schiavi e sottoporli impunemente a tortura a scopo di estorsione, in combutta con le mafie subsahariane.

Questa è la Libia con cui i governi europei stringono accordi?
Questa è la Tripolitania, che per noi rappresenta l’intera Libia, ma in realtà è il 20% del territorio sotto il controllo dei gruppi armati. Il restante 80% è controllato dalle legittime autorità, è uno Stato sovrano con un governo e un parlamento eletto dai cittadini. Da un po’ di anni quella nazione la stiamo raccontando veramente male.

E le Ong che ruolo hanno?
Nel film alle Ong attribuisco la funzione della distrazione di massa, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica europea. Ci hanno portato a parlare dei poveri cristi che muoiono in mezzo al mare, così ci siamo dimenticati della vera storia: le cause politiche. Noi abbiamo finanziato queste milizie perché saccheggino ogni anno il 40% del petrolio libico. Ma in realtà i migranti danno anche un’altra risposta.

Quale?
Che le Ong svolgono il ruolo dell’«esca» per portarli in Libia. Testuali parole di molti migranti, i cui video e audio sono caricati online. Contribuiscono a costruire quest’illusione per cui tutti, anche chi non ne ha diritto, in qualche modo può entrare in Europa. E questo è drammaticamente falso.

La diversa posizione assunta dal governo Meloni nei confronti della questione migratoria può aiutare a sbloccare la situazione?
Io penso che i governi italiani, di qualsiasi colore, in questo momento non abbiano abbastanza autonomia per varare una diversa politica estera in Libia. La situazione attuale è ciò che rimane dell’agenda Nato, che seguiva i bombardamenti, la distruzione del regime di Gheddafi, la presa del potere da parte della fratellanza musulmana. Il problema è che, nel frattempo, le autorità di Bengasi che si sono fatte legittimare nel 2014 dal voto popolare, si sono dotate anche di un esercito nazionale e si sono riprese il Paese, tranne la Tripolitania, oltre al controllo di tutti i pozzi di petrolio.

E cosa dovrebbe fare allora il nostro ministro degli Esteri?
Andare a chiedere di venderci il petrolio direttamente. A Bengasi un litro di benzina costa tre centesimi di euro. Ma l’Italia non ha la libertà a livello internazionale per farlo, perché vorrebbe dire uscire dall’agenda Nato.

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