19 marzo 2024
Aggiornato 08:30
L'inizio di una leggenda delle corse

Valentino Rossi festeggia i (primi) vent'anni di successi

Sono passati esattamente due decenni dal Gran Premio di Brno 1996, quando il Dottore salì per la prima volta nella sua carriera sul gradino più alto del podio nel Motomondiale, in classe 125. Il racconto dei suoi collaboratori di allora

Valentino Rossi
Valentino Rossi Foto: Yamaha

BRNO – E sono vent'anni. Vent'anni di vittorie. Difficile crederci vedendo il 37enne Valentino Rossi lottare ancora con avversari di un'altra generazione con l'entusiasmo e la fame agonistica di un ragazzino. Eppure, se la settimana scorsa in Austria ha festeggiato il ventennale del suo primo podio in classe 125 (era l'unico pilota in attività ad aver corso su quel circuito), domenica a Brno saranno passati due decenni dal primo successo del Dottore nel Motomondiale. Era il 18 agosto 1996 e l'allora 17enne Valentino, in sella ad un'Aprilia, riuscì a infilare Jorge Martinez e ad aggiudicarsi il Gran Premio di Repubblica Ceca: la prima vittoria di una lunghissima serie, ad oggi sono 114. All'epoca, il suo capotecnico, nella squadra di Giampiero Sacchi, era Mauro Noccioli: «Capimmo immediatamente che c’era la possibilità di vincere due o tre gare – racconta oggi alla Gazzetta dello Sport – Il GP della svolta fu quello di Jerez, quando Valentino arrivò quarto, battuto in volata, dopo essere uscito primo dall’ultima curva. Andammo vicino al successo tante volte, ma Rossi ne combinava sempre qualcuna in gara. Poi, a Brno, fu la realizzazione di un sogno dopo due anni di lavoro durissimo di Valentino e di tutta la squadra iniziato nell’Europeo. Dopo il traguardo, per festeggiare a momenti si schiantò contro il muretto a bordo rettilineo, e ai box volarono secchiate d’acqua…». Già allora, il campione di Tavullia era insieme genio e sregolatezza: tanta voglia di divertirsi ma allo stesso tempo grande applicazione nello studio e meticolosità mentale. «A quei tempi Valentino non era certo uno che si allenava, non andava in palestra, tutto quello che faceva gli veniva d’istinto e naturale – prosegue Noccioli – Non erano tutte rose e fiori: era estroverso e indisciplinato, un po’ come tutti a quell’età. Anzi, per meglio dire, come tutti i campioni: non ce n’è uno che sia stato semplice da domare da giovane. Noi ci riuscimmo, creando attorno a lui un gruppo di tecnici-amici, con il quale Rossi stava giorno e notte: alle gare europee dormivano insieme nel camion, fuori dal box giocavano a qualsiasi cosa. Aveva un’agenda sulla quale si annotava tutto, i risultati, quello che faceva, le scelte che venivano fatte all’interno del box. Scriveva tutte le sue impressioni, annotava qualsiasi particolare: non so se lo faccia ancora, allora passava delle ore a prendere appunti e a rileggerli in ogni GP».

Talento immortale
Il suo manager era invece Carlo Pernat, che ebbe il merito di scoprire il più grande talento del motociclismo moderno. «Il papà Graziano e tanti altri mi martellavano per vederlo – rivela – e quando me lo trovai in pista a Misano, nel ’95 in una gara 125 Sport Production, rimasi fulminato: usava la moto come una bici, con traiettorie da pazzo. Sembrava Schwantz. Gli feci subito un triennale, con cifre già fissate, mettendoci la faccia davanti alla resistenze dell’Aprilia e di Ivano Beggio. Capii che era incredibile, ma mai avrei immaginato cosa sarebbe diventato. È una leggenda, quindi senza eredi: simpatico, spontaneo, talentuoso e smaliziato. Faceva tremila domande, su tutto». «Non mi sarei mai aspettato di vederlo ancora in pista dopo tanto tempo – gli fa eco Noccioli – Solo lui ha fatto una carriera così e adesso sta dando addirittura il meglio di sé. Ci riesce perché è un ragazzo intelligente, osserva tutto e impara da tutti, come ha dimostrato quando è tornato in Yamaha dopo essere stato in Ducati: per essere nuovamente competitivo, ha cambiato stile di guida. Sotto questo aspetto, è davvero impressionante». Ma qualcosa che gli manca c'è? «Tecnicamente forse il primo giro alla Biaggi, ma non lo ha mai cercato più di tanto – conclude Pernat – Umanamente, invece, gli è mancato l’altruismo alla Capirossi. È fedelissimo ai suoi amici e affetti stretti: guai a toccarglieli. Ma al di fuori del suo cerchio magico è menefreghista: degli altri non si cura e forse è per questo che è sempre rimasto se stesso».