19 marzo 2024
Aggiornato 05:30
racconti

Perchè ho deciso di andare in Africa a insegnare coding e digitale

In Africa per creare impatto sociale, per condividere con giovani ragazzi le proprie competenze. Come un baratto. Che, in cambio, riconsegna i valori della vita

NAIROBI - Filippo Scorza con il digitale e le nuove tecnologie aveva a che fare già da un pezzo. E pure con il cosiddetto «impatto sociale», il valore che molte startup oggi cercano di scaricare sul territorio. Con Amyko, startup sviluppata insieme all’amico Riccardo Zanini, ha creato un dispositivo wearable capace di condividere le informazioni di salute dell’utente con altre persone. Ma cosa significa, davvero, creare impatto sociale? «Credo di aver lavorato per aziende e startup 16mila ore della mia vita (ho fatto un breve calcolo, ndr.) - mi racconta Filippo -. Ma nella mia vita (e scusate il gioco di parole) mancava sempre un pezzo. E che di esperienze ne ho sempre fatte tante, non mi sono mai lasciato sfuggire nessuna opportunità. Ma ogni tanto, sai, mi chiedevo perchè».

Non che Amiko non sia stata un’invenzione importante. Se mia nonna sta male e indossa il braccialetto, per intenderci, lo posso sapere immediatamente. Mi basta una notifica sullo smartphone. «Un giorno ho deciso di partecipare al master in Social Innovation di Amani Institute il cui scopo è quello di formare e preparare i nuovi leader e imprenditori nel settore dell’innovazione sociale - racconta Filippo -. Sono rimasto colpito da alcune testimonianze e, grazie a Impactscool, sono partito per un periodo di formazione a Nairobi. E’ stato lì che ho cominciato a unire i puntini». Filippo parte e comincia a lavorare come volontario digitale in alcune organizzazioni. «Ho visitato alcune community e ho deciso di fermarmi. Nessuno mi ha chiesto niente. Io ho solo detto ‘lasciatemi stare qui, vi insegno tutto quello che so, mi basta questo’».

E così, due volte alla settimana Filippo, attraversa la città di Nairobi e arriva in periferia, in quella che somiglia tanto a una baraccopoli. Lì c’è una scuola con un’antenna enorme dove si diffonde gratuitamente internet. Lì, dentro quelle mura, i ragazzi africani svolgono un corso di conding intensivo di tre mesi, imparano la tecnologia e il digitale, avvicinandosi al resto del mondo. «Non dobbiamo pensare all’Africa come un Paese completamente staccato dalle logiche digitali del pianeta - mi racconta Filippo -. Anzi. Il loro approccio, quando fanno startup, è davvero molto più scalabile del nostro, ad esempio. Vanno dritti alla soluzione. Non creano prodotti o servizi, ma cercano di risolvere un problema esistente e sentito dalla comunità. Sono concentrati sull’education, sulla blockchain e sulle farming. Attirando anche l’interesse di molti VC della Silicon Valley». Un paese che, forse, non ci saremmo mai aspettati dove i cervelli non scappano dalla miseria, ma sviluppano progetti e idee per cambiare quel pezzo di terra che sta attorno alla loro casa. Startupper che insegnano ad altri startupper, come se fosse un baratto sociale.

Il Kenya, ad esempio, è un paese dove i pagamenti elettronici sono sorprendentemente diffusi. Il 69 per cento dei suoi abitanti li ha usati per fare almeno un acquisto nell’ultimo anno: una percentuale altissima per un paese in via di sviluppo. La maggior parte del merito è di Safaricom, il principale operatore telefonico locale, che nel 2007 ha introdotto M-Pesa, un sistema che permette anche a chi non possiede un conto corrente bancario di inviare denaro elettronicamente.

Filippo, questo Natale, tornerà in Italia per continuare a dedicarsi ai suoi vecchi progetti. Ma sta cercando di creare un’estensione affinché quello che ha fatto non resti solo un’esperienza. «Prendere una pausa dalla mia vita lavorativa è stata la scelta migliore che potessi fare. Per questo ho deciso di sviluppare Skillando, una piattaforma per nomadi digitali che vogliono girare il mondo collaborando a progetti di impatto sociale condividendo le proprie competenze in cambio di quegli stessi valori che io avevo perso nella mia vita precedente».  Un ponte per la condivisione di competenze e di valori, un baratto a «impatto sociale». Per ora si tratta di una versione mini-beta alla quale Filippo ha lavorato da solo. «La implementerò anche per creare nuovi network. Se consiglio un'esperienza come la mia? Assolutamente sì. Tutti dovrebbero venire qui, almeno una volta nella vita».