28 marzo 2024
Aggiornato 23:00
impresa

Tra dati e polemiche, il problema delle startup non è (sempre) delle startup

All'indomani dell'ultimo rapporto sulle startup elaborato da Mise, Infocamere e Unioncamere, abbiamo cercato di restituire una lettura d'insieme, cercando di guardare aldilà dei semplici numeri

ROMA - Periodicamente il report diffuso trimestralmente dal Mise e relativo allo stato di salute delle nostre startup italiane non manca di generare polemiche e ilarità, tra addetti del settore, imprenditori e investitori. Dati sulla carta che vengono analizzati e commentati in tutti i social network alla ricerca di risposte e soluzioni. L’ultimo report parla di quasi 7400 startup iscritte nella sezione speciale del Registro delle Imprese, in aumento. Come crescono capitale sociale (373,6 milioni di euro) e il numero complessivo di soci e addetti, che tocca quota 36.504. Ma calano fatturato, produzione e reddito. E allora diventa quanto mai semplice gridare all’emergenza sociale, come sta avvenendo in modo copioso da quando Macron ha lanciato il fondo da 10 miliardi per le startup. Una notizia che ci ha fatto accapponare la pelle, ma forse solo perché avvenuta a pochi chilometri da noi e che ci fa riflettere su quello che è l’effettivo problema del nostro Paese: il fallimento del mercato dei capitali di rischio. E allora quali conclusioni trarre da tutti questi numeri, che ci raccontano solo parzialmente ciò che si muove ogni giorno nella nostra nazione?

La questione delle startup scalabili
Numeri e analisi più o meno approssimative ci parlando di startup italiane che sono poco propense a realizzare modelli scalabili, dove il 50% fattura meno di 100mila euro l’anno. Al netto del nostro mercato dei capitali di rischio piuttosto lacunoso, dati come questi hanno spesso suggerito l’ipotesi che le colpe fossero da addossare alla mancanza di talento degli imprenditori italiani. Ma è così? «Non esiste nessuna carenza genetica degli startupper italiani e vi sono casi che dimostrano che imprenditori Italiani, nati e formati in Italia hanno successo all’estero - Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Startup -. Il problema non sono gli imprenditori o le startup (vere) Italiane ma è la mancanza di finanziamenti, di propensione al rischio imprenditoriale, il pensare in piccolo, il proteggere rendite di posizione, il conservatorismo. Colombo dovette andare dalla Regina Isabella per farsi finanziare la spedizione che portò – con uno spettacolare pivot – a scoprire l’America cercando la via delle Indie. In un paese di Gattopardi e Padrini abbiamo bisogno di ritrovare i Lorenzo de Medici ed i Camillo ed Adriano Olivetti».

Un Registro a ‘maglie larghe’
Partendo dall’assunto che il report prende in esame i bilanci 2015 che riguardano solo il 48,8% del totale delle startup iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese, i numeri scattano, tuttavia, una fotografia tutt’altro che positiva: il 94% delle startup innovative italiane ha un capitale sociale inferiore ai 10mila euro e impiega al massimo quattro addetti, il fatturato diminuisce del 6,3% rispetto a tre mesi fa, così come il valore mediano (- 9,2%). A fronte si questi numeri potrebbe aver senso considerare la situazione al limite dell’emergenza. Un’emergenza che - però - potrebbe trovare le proprie radici qualche anno fa quando, nel 2012, il Decreto Sviluppo, istituì i parametri affinché le startup potessero accedere alla sezione speciale del Registro delle Imprese. Una questione già ampiamente discussa, quella di un registro ‘a maglie larghe’, dalla quale è, tuttavia, necessario muoversi, per guardare al futuro: «Non tutte le startup che accedono al registro hanno la caratteristica per essere chiamate tali – ovvero imprese ad alto tasso di crescita basate su innovazione di modello di business, processo e/o prodotto – ma molte sono microimprese tradizionali che pur detenendo i criteri legali per l’accesso al registro non sono «vere» startup ma imprese in fase di startup che è cosa diversa - continua Marco Bicocchi Pichi -. Un registro a «maglie larghe» che consenta l’accesso ad agevolazioni e comunque in un contesto in cui la formazione di nuove imprese va comunque incoraggiata e sostenuta non deve rappresentare uno scandalo in un Paese che ha un bisogno estremo di rendersi più amichevole per l’impresa».

L’impatto occupazionale
Il report mette, tuttavia, in risalto dei dati che potrebbero farci ben sperare. Sono quelli relativi al profilo occupazionale, laddove il numero complessivo di soci e addetti coinvolti nelle startup, ha raggiunto al 31 marzo 2017 36.504 unità, in aumento del 24,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In media ogni startup presenta 4.03 soci, con valore mediano pari 3, superiori a quelli del complesso delle società di capitali. Secondo il report, è ipotizzabile che i soci siano coinvolti direttamente nell’attività d’impresa. Partendo dal presupposto che molte startup hanno nella propria compagine sociale anche incubatori d’impresa, questo dato ci può dire davvero che le startup stanno generando un impatto reale a livello di occupazione? «Il lavoro non è solo quello diretto creato dalle imprese tecnologiche ma quello indiretto che viene creato dove il tasso di crescita e di benessere è elevato - continua Marco -. In parole semplici al limite del semplicistico è anche quanti posti di lavoro per camerieri, giardinieri, commessi si generano per ogni ingegnere del software impiegato. Perché le startup Italiane possano avere un impatto reale sull’occupazione occorre che siano finanziate ed in conseguenza possano crescere ed assumere pagando adeguati stipendi. Un mondo di microimprese in cui i dipendenti sono i soci d’opera in prevalenza e non sono pagati non genera occupazione se non statistica». Un caso emblematico è quello di Lanieri, startup nata in Italia, nel biellese, patria del tessile da sempre che Simone Maggi e Riccardo Schiavotto hanno saputo reinventare grazie alla loro azienda che oggi conta ben 25 dipendenti. E dove Francesca lavora con contratto regolare: «Qui è meglio di una multinazionale», ci aveva raccontato. Per generare un impatto vero, è quindi necessario che le startup ottengano i finanziamenti.

La questione della fiducia (e dell’ottimismo)
Al netto delle considerazioni, di critiche e di polemiche che si rincorrono sui social network, laddove prevale il pessimismo, purtroppo spesso fomentato anche dai media, forse ciò che manca al nostro Paese è la fiducia. Un motore dalla portata eccezionale. Un’analisi attentata, al netto dei soli 75 milioni di euro investiti in Italia nei primi sei mesi dell’anno, che sono - di fatto - una goccia nell’oceano rispetto anche solo ai 500 milioni investiti dalla nostra vicina Spagna, che ci suggerisce lo stesso Marco Bicocchi Pichi. «La cultura del Paese Italia rimane ancorata al passato in troppi suoi esponenti. Sono personalmente convinto che tutto il mondo invidia all’Italia le capacità – senza far torti ma per dare un esempio – di persone come Rossettini di D-Orbit, Avino di Argotec, Ravagnan di Wise, Andrea Calcagno di Cloud4Wi, Tassone di Personal Factory e tanti altri e penso che nessuno di questi «campioni» trovi velocemente e nella giusta dimensione il capitale per crescere. I nostri migliori talenti vengono attratti da paesi esteri, e le nostre migliori startup stanno seguendo. Ho parlato di «gemme nascoste» in Italia, io rimango convinto che all’Italia manca più di ogni cosa la fiducia nel futuro e nei suoi talenti e quindi la finanza per sviluppare le imprese sui mercati mondiali che mai come in quest’epoca sono in crescita. Questo è quanto diceva nel 2008 Ronald P. Spogli l’ambasciatore americano in Italia con un passato da Venture Capitalist: «non capisco perché non credete nei vostri talenti e non investite, non capisco perché vi dividiate invece di unirvi» e lanciò il DEF Digital Economy Forum. Continuiamo ancora in troppi casi a non crederci ed a dividerci. Fino all’ultimo giorno della mia Presidenza in Italia Startup continuerò a lanciare l’appello perché i grandi patrimoni ed investitori guardino all’opportunità di far crescere startup con ambizioni globali e lavorino per unire la leadership per l’Italia. Dobbiamo portare EMA a Milano e dare concretezza al progetto Post Expo. Nell’alba di un nuovo giorno mi piace pensare ad esempio a cose come Seed&Chips di Marco Gualtieri, al progetto Education di H-Farm, alla iniziativa Presieduta da Andrea Pontremoli AD Dallara della Motor Vehicle Universityed appena in embrione al progetto con la FIGC Federazione Italiana Gioco Calcio a Trento. Il nostro ecosistema crescerà perché saremo più forti delle avversità».