19 aprile 2024
Aggiornato 01:30
Crescita economica

La ricetta economica del M5s: come si finanzia il reddito di cittadinanza e cosa serve per creare l’«Italia ad alta Qualità della Vita»

Con due interventi scritti, quello di Fioramonti e di Tridico, il M5s annuncia la sua ricetta per costruire l'Italia che ha in mente

Il candidato premier del M5s, Luigi Di Maio
Il candidato premier del M5s, Luigi Di Maio Foto: Alessandro Di Marco ANSA

ROMA - «Un governo del Movimento 5 Stelle non è più utopia, ma una concreta possibilità. Potremo finalmente costruire l’Italia ad alta Qualità della Vita che abbiamo sempre sognato. Per riuscirci occorre avere ben chiare le priorità». Inizia così sul Blog delle Stelle l'analisi di Lorenzo Fioramonti, l'economista indicato dal M5s come ministro dello Sviluppo economico in un ipotetico governo a 5 Stelle, per costruire finalmente quell'«Italia ad alta Qualità della Vita» che il Movimento auspica da tempo. Classe 1977, professore di Economia politica all’Università sudafricana di Pretoria a soli 35 anni, è un fiero avversario del Pil, inteso come indicatore ormai inidoneo ad orientare le scelte politiche ed economiche di una nazione, concetto che peraltro ha approfondito nel libro «Presi per il Pil»: «Il Pil è una misura anacronistica e fuorviante, che crea incentivi perversi» e quando si usa in modo perverso diventa un rischio per la democrazia, perché «se le persone non possono co-definire le regole attraverso cui funziona il sistema, rimarremo sempre con una democrazia azzoppata».

Al centro lo «Stato innovatore»

Fioramonti sostiene innanzitutto che sia necessario mettere al centro dell’economia lo «Stato Innovatore», che indirizzi lo sviluppo del Paese nei settori strategici attraverso maggiori investimenti, corregga gli squilibri della finanza speculativa ed eroghi direttamente parte del credito alle imprese per mezzo di una banca pubblica. Poi, serve trasformare la politica industriale del Paese nella direzione dell’economia circolare, delle fonti rinnovabili e del decentramento energetico: la cosiddetta autoproduzione, cui va di pari passo l'autoconsumo di energia. Terzo punto: sostenere la domanda interna e le micro, piccole e medie imprese che investono localmente, abbassando la pressione fiscale come Irpef e Irap e semplificando il rapporto dei contribuenti con l’Agenzia delle Entrate, attraverso l'abolizione di centinaia di leggi dannose come lo spesometro, il redditometro e gli studi di settore.

La visione pioneristica dell'Italia?

Una volta messo in moto questo meccanismo, occorre creare «centinaia di migliaia di posti di lavoro stabili, in settori ad alto valore aggiunto e quindi ad alti salari» scrive Fioramonti in modo un po' troppo semplificativo, e «incidere sul debito pubblico grazie alle maggiori entrate derivanti dalla crescita occupazionale e allo spostamento di decine di miliardi di spesa improduttiva su voci di bilancio ad alto rendimento». L'Italia può offrire al resto del mondo una visione «pionieristica» dello sviluppo, sostiene, dove a contare sia la Qualità della Vita (Q e V maiuscoli) complessiva e non solo parametri di produzione incompleti come il Pil.

Alla base della crisi non solo le politiche di austerità

Prende la parola, sempre sul Blog delle Stelle, anche il prof. Pasquale Tridico, economista all’Università Roma Tre scelto da Di Maio per il Welfare: è docente di Economia del lavoro e Politica Economica e direttore del Master in Human Development and Food Security e del master biennale in Labour Market, Industrial Relations and Welfare Systems, nonché segretario generale dell’European Association for Evolutionary Political Economy (EAEPE). Dopo circa 15 anni di studi e ricerche sui temi del lavoro, della flessibilità, della produttività e della crescita economica, scrive, «posso dire di aver una idea precisa sul mercato del lavoro e sui problemi della scarsa performance della produttività e del Pil in Italia: alla base del nostro declino economico non ci sono solo le politiche di austerità ma anche la precarizzazione del posto di lavoro». E fin qui nulla di nuovo, verrebbe da dire...

Se il lavoro costa poco...

Il prof. ripercorre la nascita della stagione del lavoro flessibile, iniziata con il pacchetto Treu del 1997 e proseguita ininterrottamente fino al Jobs Act di Renzi e alla riforma Poletti sui contratti a termine. I salari sono più o meno stagnanti dall’accordo del luglio 1993. I risultati in termini di produttività e disoccupazione sono stati disastrosi, tranne una breve stagione di due tre anni fino a prima della crisi del 2008-09 in cui l’occupazione («improduttiva») è aumentata. Il motivo è semplice, spiega Tridico: se il lavoro flessibile costa poco, dato che il lavoratore perde diritti e quote salari, l’impresa rinuncerà agli investimenti ad alto contenuto di capitale, all’innovazione e quindi anche alla formazione di lavoratori qualificati con più alti salari. Verrà azionata la leva della competitività salariale piuttosto che quella dell'innovazione e del capitale umano costoso e qualificato. Avremo frequenti casi di sotto-mansionamento, e giovani laureati costretti a svolgere lavori meno qualificati con più bassi salari. Avremo anche casi di emigrazione qualificata e «fughe di cervelli» all’estero. A perderci sarà tutto il Paese, impantanato in un contesto produttivo poco dinamico e a basso valore aggiunto.

Come si può sostenere il reddito di cittadinanza

«Dobbiamo invertire urgentemente la rotta» chiosa il potenziale futuro ministro del Welfare grillino: rimettendo al centro la qualità del posto di lavoro, gli investimenti in settori avanzati, e la formazione continua, spostando più in alto la frontiera tecnologica del sistema produttivo, con particolare attenzione ai settori innovativi e mission-oriented. Le priorità sono chiare, dice: il reddito di cittadinanza, tanto per cominciare, «che è tecnicamente un reddito minimo condizionato alla formazione e al reinserimento lavorativo». Lo Stato sosterrà economicamente chi oggi non raggiunge la soglia di povertà indicata da Eurostat, in cambio dell’impegno a formarsi e ad accettare almeno una delle prime tre proposte di lavoro, purché siano eque e vicine al luogo di residenza. II reddito di cittadinanza, a suo avviso, può essere finanziato attraverso maggior deficit in termini assoluti ma senza aumentare il rapporto deficit/Pil e senza sforare la soglia del 3%. In sintesi, il meccanismo è questo: almeno 1 milione di persone che attualmente non cercano lavoro ma sarebbero disponibili a lavorare (i cosiddetti ‘inattivi’ e scoraggiati) verranno spinti alla ricerca del lavoro attraverso l’iscrizione ai Centri per l’Impiego e andranno così ad aumentare il tasso di partecipazione della forza lavoro. «Questo ci permetterà di rivedere al rialzo l’output gap, cioè la distanza tra il Pil potenziale dell’Italia e quello effettivo, perché 1 milione di potenziali lavoratori saranno di nuovo conteggiati nelle statistiche Istat». Se aumenta il Pil potenziale, nella sua logica, si potrà mantenere lo stesso rapporto deficit/Pil potenziale, cioè il cosiddetto ‘deficit strutturale’, spendendo circa 19 miliardi di euro in più di oggi. Il reddito di cittadinanza costa 17 miliardi complessivi, compresi i 2,1 miliardi per rafforzare i centri per l’impiego, e «potrebbe quindi finanziarsi interamente grazie ai suoi effetti sul tasso di partecipazione della forza lavoro».

Investimenti produttivi dello Stato nei settori a più alto ritorno occupazionale
Seconda priorità: investimenti produttivi dello Stato nei settori a più alto ritorno occupazionale, «senza i quali il reddito di cittadinanza sarebbe una misura monca, poiché non potrebbe offrire ai beneficiari il lavoro di qualità che abbiamo in mente». L’idea è di destinare almeno il 34% di questi investimenti nel Sud Italia, che ha urgente bisogno di uscire dal sottosviluppo e dal sotto-investimento a cui lo hanno condannato le politiche economiche degli ultimi decenni e l’assenza di una strategia industriale e di sviluppo. Considerando che la popolazione del Sud Italia è anche superiore al 34% del totale della popolazione, la clausola del 34% «non sarebbe un favore al Meridione, ma il giusto compromesso per farlo tornare a crescere». Sul lato degli investimenti privati, che verranno già stimolati da quelli pubblici, va ricordata anche la Banca pubblica di investimento, che nell'idea dei 5S dovrebbe erogare credito a tassi agevolati a micro, piccole e medie imprese.

Salario minimo, «Patto di produttività» e robotizzazione

Terzo punto: il salario minimo orario, che ha il compito di salvaguardare quelle categorie di lavoratori non coperte da contrattazione nazionale collettiva. L’obiettivo è di sradicare sfruttamento e precarietà, che negli ultimi anni sono cresciuti enormemente, e dare anche un impulso alla domanda interna. Cui segue un «Patto di Produttività» programmato tra lavoratori, governo e imprese, al fine di rilanciare salari, produttività e investimenti, soprattutto in quei settori in cui decideranno di intervenire selettivamente con la riduzione del cuneo fiscale. «Dobbiamo impedire infatti che il minor costo del lavoro porti le imprese ad ignorare gli investimenti «capital intensive» in settori ad alto contenuto tecnologico, come accaduto in questi anni tramite i circa 23 miliardi di sgravi fiscali sulle nuove assunzioni regalati dal Jobs Act». E last but non least, il tema di più lungo periodo della robotizzazione, «una sfida che non va lasciata alla schizofrenia del mercato, ma gestita politicamente». Il primo passo in questo senso, conclude Tridico, sarà la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, in modo da aumentare l’occupazione e di incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese.