20 aprile 2024
Aggiornato 01:00
«Il meno Beatle» del quartetto più famoso del mondo

Beatles: dieci anni fa moriva George Harrison, «the quiet one»

Un artista enigmatico, con uno stile proprio e ben definito e mai incline a fare alcuna concessione alle mode musicali, come gli altri Beatles. In seguito alla morte di John Lennon, George divenne più eremita che mai

LONDRA - Un nuovo ed eponimo libro fotografico con numerose immagini inedite e un documentario fiume di Martin Scorsese, «Living in the material world«: a dieci anni dalla scomparsa il mondo ricorda George Harrison, morto il 29 novembre del 2001 per un tumore cerebrale.
«The quiet one», quello tranquillo: in sintesi, questo è il ritratto di Harrison, «il meno Beatle» del quartetto più famoso del mondo, l'uomo che aveva più volte definito la sua vita ai vertici dell'establishment musicale del pianeta «un inferno». In effetti, George non aveva mai avuto molti motivi per ricordare con troppo affetto i favolosi anni Sessanta. Schivo ed introverso, aveva sempre odiato cordialmente la vita on the road e le interminabili corse «da un aereo a una limousine, da una limousine alla camera di un albergo, poi un'altra limousine fino al palco per ricominciare il giro da capo».

E nonostante il talento, George si era sempre trovato in inferiorità nei confronti di John Lennon e di Paul McCartney, che non solo erano geni e per di più prolifici, ma spesso lo trattavano con la condiscendenza di chi «ha sempre avuto due anni più di te», come commentava lo stesso George. La conseguenza pratica di tutto ciò era che a Harrison venivano concesse al massimo un paio di canzoni ogni album, e un tempo di lavorazione assai minore. Malgrado le limitazioni il suono della sua Rickenbacker 12 corde prima, e del sitar poi, erano comunque diventati uno dei marchi di fabbrica del gruppo.
Proprio il suo interesse per la musica e la filosofia indiane aveva aperto un'epoca nuova nel rock, ancorato agli stivali ed alla brillantina, e per merito suo si è svolto il primo grande concerto benefit della storia, quello dedicato alle vittime del Bangladesh, nel 1971. La fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta hanno visto il periodo artistico migliore di George, autore in quel periodo di classici come Something o di All things must pass.

Harrison interpretò meglio di tutti il nuovo corso del rock, che con la Band o gli Allman Brothers Band si allontanava sempre di più dalla psichedelia per tornare alle radici blues e country.
George incontrò tutti gli artisti giusti: Ravi Shankar, che lo introdusse allo studio della musica indiana, Bob Dylan ed Eric Clapton, suoi grandi amici, Phil Spector, e Delaney Bramlett, che contribuì a risvegliare il suo interesse per la chitarra slide, dal 1970 in poi la sua tecnica preferita.
Tutte le canzoni che per un motivo o per un altro non finirono sugli album dei Beatles trovarono così sbocco in All things must pass (1970), il primo album triplo della storia del rock a finire in testa alle classifiche, diventato ormai un classico.
Dopo il trionfo del concerto per il Bangladesh tuttavia, George decise di prendersela con calma e di rinunciare alle luci della ribalta, tenendo sempre pochi concerti e registrando nel suo studio privato.

Dopo i problemi di plagio involontario causatigli da My sweet Lord, una canzone che fu giudicata troppo simile a «He's so fine» dei The Chiffons (in realtà sarebbe più esatto dire che entrambe si ispiravano a «Oh happy day«) George formò la propria casa discografica «Dark Horse» ma ridusse al minimo il lavoro, preferendo concentrarsi sulle attività cinematografiche con la casa di produzione «Handmade Films», che fra le altre cose permise ai Monty Python di completare e far uscire il classico «Life of Brian».

In seguito alla morte di John Lennon, George divenne più eremita che mai, dividendo il suo tempo fra Friar Park, la villa edoardiana di Henley on Thames, e una casa nei Caraibi. Nel 1987 tornò in vetta alle hit con «Got my mind set on you», singolo tratto da «Cloud Nine» ed ultimo lavoro solista prima di «Brainwashed», uscito postumo. Negli anni Ottanta e Novanta Harrison collaborò soprattutto con altri artisti, formando i Traveling Wilburys con gli amici Bob Dylan, Tom Petty, Jeff Lynne e Roy Orbison.
Poche le apparizioni in pubblico, se si eccettua una serie di concerti in Giappone cui lo convinse Eric Clapton, il quale fornì la band di supporto. E infine i problemi di salute, per non parlare del tentato omicidio da parte di un folle introdottosi nella sua casa nonostante tutti i sistemi di sicurezza, sventato solo dal provvidenziale intervento della moglie Olivia.

Un artista enigmatico, con uno stile proprio e ben definito e mai incline a fare alcuna concessione alle mode musicali, come gli altri Beatles: d'altronde, semmai erano loro ad essere la moda, e gli altri a dover seguire i passi del quartetto.
Soprattutto, quello che Steve Howe degli Yes ha definito «il più grande chitarrista di gruppo di tutti i tempi»: un virtuoso poco amico dei virtuosismi, in grado di mettere lo strumento al servizio della canzone, e non viceversa. George, buon cantante e ottimo compositore, forniva ai Beatles ogni tipo di sonorità chitarristica: flamenca («Till there was you«), acustica («And I love her«), la 12 corde di tutto «A hard day's night», o gli esperimenti di chitarra registrata al contrario di «I'm only sleeping»; più tardi, nella sua carriera solista, il suo inconfondibile tocco alla slide è stato imitato e sfruttato da innumerevoli colleghi.